Da che parte deve stare un giornale?
Dalla parte di chi non ha voce
Il direttore del Post Francesco Costa, in un lungo episodio del podcast Wilson, si chiede da che parte devono stare i giornali. La risposta che sembra più ovvia è: dalla parte dei fatti.
“Un giornale è prima di tutto un servizio”, dice Costa. “È un lavoro insostituibile che, se funziona, ha uno scopo semplice, enorme, far capire alle persone qualcosa in più del mondo in cui vivono”.
E quindi il giornalismo deve verificare, confrontare le fonti, separare i fatti dalle opinioni. Deve aggiungere contesto, non deve raccontare ogni fatto come se fosse un istante isolato, non deve alimentare le polemichétte.
Costa ammette anche, quasi da subito, che l’oggettività è impossibile perché siamo esseri umani, ma poi continua a parlare di questa cosa che il giornale consegna i fatti. Cita il caso Watergate (tutti citano sempre il caso Watergate, che è un unicum e dunque, come tale, non andrebbe proprio citato). Parla del non schierarsi. Di fatto il suo è un lungo panegirico di come fa giornalismo il Post. Quasi content marketing. Più che legittimo, ovviamente, anche se Costa dice che non è questo il punto e, nelle sue premesse – lui stesso le chiama “mani avanti” – prova anche smontare a priori quasi ogni possibilità di critica. Del resto, come si può non apprezzare un giornalismo che cerca le prove, che non è urlato, che non partecipa alle battaglie fra polli da combattimento dei talk show, che non fa casino, che ti aiuta a mettere ordine nelle cose?
Un giornalismo che cita le fonti e le compara è senza dubbio quello di cui abbiamo bisogno come società, perché crea anticorpi rispetto alla polarizzazione.
C’è solo un problema in questo approccio, ed è la negazione dell’atto politico.
Fare un giornale è di per sé un atto politico1, negarlo è un modo per fare equilibrismi inutili.
Se questa affermazione sembra troppo perentoria, proviamo a vedere quali fatti la sostengono. Ci sono almeno tre elementi che minano alla base anche le nobilissime prese di posizione del giornale che vuole essere il meno schierato di tutti:
la selezione: giornaliste e giornalisti operano sempre una scelta su quali fatti coprire e quali escludere. Questa selezione non è mai neutrale né oggettiva, ma influenzata da valori, linee editoriali, rilevanza percepita, e logiche di notiziabilità. In alcuni casi è vera e propria agenda setting. In altri, be’, è semplicemente che è così che facciamo le cose come esseri umani
l’inquadramento (framing): il modo in cui una notizia viene presentata, il linguaggio utilizzato e il contesto fornito influiscono sulla percezione del lettore. E non possiamo fare a meno di inquadrare le cose, perché abbiamo un punto di vista, per quanto lo si cerchi collettivo e dalla parte dei fatti
i fattori umani e contestuali: chi fa giornalismo è una persona con un proprio bagaglio culturale, ideologico, valoriale, con il vincolo del tempo e delle risorse, con le proprie giornate storte. Una redazione è un gruppo di persone con le proprie dinamiche e, ancora una volta, i propri punti di vista, per quanto variegati e collettivi. Inoltre, l’informazione è spesso influenzata da logiche economiche (editori, pubblicità) o politiche.
E così, le parole che si usano, anche quelle che sembrano meno connotate, raccontano l’atto politico ma anche la selezione, il framing, i fattori umani e contestuali.
Quando Il Post parla di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi, persino nella scelta di quelle due parole si schiera dalla parte della storia che racconta Israele.
Quando le famiglie dei detenuti palestinesi sono le ultime della lista, precedute da quell’anche, Il Post si schiera.
Questo semplice esempio, unito alla politicità delle scelte che facciamo quando occupiamo uno spazio nella società, smonta tutto il discorso retorico della semplice consegna dei fatti per capire meglio, purtroppo. Perché anche quella consegna è viziata dalla nostra umanità, anche quando ci sono le migliori intenzioni.
E allora come si fa?
Be’, prima di tutto si perseguono quei valori di cui parla Costa, chiaramente: la trasparenza, la citazione delle fonti, il metodo della verifica sono indispensabili. Senza di loro non dovremmo nemmeno parlare di giornalismo, e infatti molto spesso viene definito giornalismo qualcosa che, semplicemente, non lo è.
Poi si accoglie l’inevitabilità dell’atto politico.
Infine, si sceglie una parte. Ma quale? Quale parte mai potremmo scegliere per non essere troppo faziosi?
Una buona idea potrebbe essere: quella delle persone deboli, povere, schiacciate. Quella delle persone che non sono mai rappresentate dal loro punto di vista.
Perché il grande assente da questi discorsi che elevano il giornalismo al ruolo di magistratura dei fatti – una visione che a volte mi sembra ingenua, altre volte fanatica, altre volte mitomane e poi un mix di tutte queste cose insieme – è l’elefante nella stanza. Il punto di vista.
Se racconto il fatto di cronaca dei tre carabinieri morti – sono persone morte sul lavoro verso le quali non si può che provare empatia – nell’esplosione di una casa in provincia di Verona ma non racconto la storia della famiglia che doveva essere sgomberata, sto facendo framing.
Se non dico che i tre carabinieri morti sono anche vittime dell’emergenza abitativa, a sua volta figlia del mercato immobiliare, sto omettendo un pezzo fondamentale. E sto, fatalmente, raccontando la storia da un punto di vista. Quello dei ricchi.
Storicamente il giornalismo rappresenta il punto di vista dei ricchi o, perlomeno, quello dei benestanti.
Storicamente il giornalismo è maschio, bianco, occidentale, benestante.
Allora, forse, oggi, sarebbe il momento di un giornalismo che stia dalla parte delle persone deboli, schiacciate, cancellate, invisibili e non rappresentate.
Attenzione: stare dalla parte delle persone deboli non significa prendere le loro parti e giustificarne azioni a prescindere. Significa raccontarle dal loro punto di vista. E anche la scelta di chi siano le persone “deboli” o “schiacciate” non è neutra: è anch’essa un atto politico e non oggettivo. La stessa nozione richiede una selezione e dunque un framing ideologico. Il dovere di verificare i fatti non scompare ma bisogna accordarsi, appunto, persino su quali fatti bisogna verificare, da dove partire, come contestualizzare.
Altrimenti continueremo a fare un esercizio di stile, a “consegnare fatti” dicendoci quanto siamo bravi a perseguire l’oggettività, senza nemmeno renderci conto di quante persone escludiamo e delle scelte schierate che facciamo.
Lo stesso Costa, per esempio, fece parte dell’esperienza iMille insieme al precedente direttore del Post, Luca Sofri, ed è parecchio difficile, per chi c’era, negare che le due esperienze siano in qualche modo collegate. E non c’è proprio nulla di male.





Da lettrice entusiasta del post, questo articolo mi ha lasciata così 😯. Come ho fatto a non pensare prima a questa cosa che ora sembra così ovvia? Grazie!
Ciao Alberto,
su questa bella newsletter ci ho scritto un post LinkedIn aggiungendo anche un altro pezzetto https://www.linkedin.com/posts/cristinamaccarrone_da-che-parte-deve-stare-un-giornale-activity-7384155087192940544-9hIY?utm_source=share&utm_medium=member_desktop&rcm=ACoAAAIZGd8BzuydsEiowxsVFS3qhIhbZHe0Q-w e grazie perché è un tema di cui parlo spesso anche io, ma non ci avevo scritto mai nulla.