Le AI sono uno strumento intersezionale
E se le vediamo così, cambia davvero tutto
Le intelligenze artificiali, per molte persone critiche, sono da condannare in quanto discriminatorie; in quanto prodotto di punta del capitalismo estrattivo; in quanto responsabili della m*rda a spruzzo che inonda i social e della falsa conoscenza; in quanto sono energivore; in quanto ci impigriscono. E via dicendo.
Quello che sfugge a queste critiche è che le intelligenze artificiali sono strumenti intersezionali nei loro effetti perché agiscono in un mondo che è intrinsecamente tale.
Cosa vuol dire intersezionale?
Se lo sai già, salta a pié pari. Se no, segui questo velocissimo racconto.
Intersezionalità è una parola che viene usata per indicare le diverse identità che abbiamo e che si sovrappongono (si intersecano, appunto) e come queste identità vengono oppresse, dominate, discriminate.
L’ha usata, nel 1989, Kimberle Crenshaw per parlare del femminismo nero scrivendo, fra l’altro che “qualsiasi analisi che non tenga conto dell’intersezionalità non può affrontare a sufficienza il modo particolare in cui le donne nere sono subordinate”. Audre Lorde ha aggiunto che “non esiste una lotta monotematica, perché non viviamo vite monotematiche”.
Insomma. Intersezionalità è un modo per dare conto della complessità senza ridurre a uno solo gli aspetti delle lotte anti-discriminatorie.
Applicata alla tecnologia, l’intersezionalità significa riconoscere che ogni innovazione produce effetti diversi a seconda delle posizioni sociali, economiche e culturali di chi la usa o la subisce.
Quindi non esiste un’AI “uguale per tuttə”, come non esiste un’esperienza neutra della realtà. E allora, potrebbe dire qualcunə, come osi tu, maschio bianco occidentale, affermare che uno strumento come le AI, che è in mano a un manipolo di ricchi che fanno quel che gli pare, sia intersezionale? Be’, oso farlo perché lo si può intravedere proprio partendo dalle critiche.
Le AI e la discriminazione
Le intelligenze artificiali generative sono state addestrate, verosimilmente, con tutto ciò che della produzione culturale umana è stato digitalizzato. Questo genera un’enorme asimmetria per due motivi.
Il primo è che la produzione culturale fa parte del mercato culturale ed è piramidale.
Il secondo è che la produzione culturale umana di massa è un oligopolio.
La cultura digitale non nasce in un campo neutro: si forma a partire da un archivio già ampiamente colonizzato. I modelli di linguaggio e di immagine si nutrono di testi, foto, film, canzoni, articoli e codici prodotti all’interno di un sistema in cui poche entità controllano la visibilità, la distribuzione e la legittimità culturale.
Significa che le AI imparano soprattutto dai centri del potere simbolico — le lingue dominanti, i generi egemoni, le estetiche mainstream — e molto meno dalle culture marginali, dai dialetti, dalle tradizioni orali, dai linguaggi non normativi.
Quando interroghiamo un modello, quindi, non stiamo solo chiedendo “a una macchina”: stiamo interrogando la memoria digitalizzata del capitalismo culturale. E quella memoria è piena di gerarchie.
C’è solo un modo per smontare quelle gerarchie ed è fare in modo che le macchine siano addestrate con punti di vista “altri” da quelli più ampi.
L’intersezionalità serve proprio a questo: a ricordarci che la lotta contro la discriminazione algoritmica è, prima di tutto, una lotta contro la concentrazione del potere culturale, linguistico ed economico.
Le AI e il furto
Le AI rubano. È l’accusa più diffusa e, in parte, la più comprensibile. I modelli generativi sono stati addestrati su enormi quantità di dati: testi, immagini, musiche, video, opere artistiche. Tutto ciò che è stato reso digitale e accessibile è finito — direttamente o indirettamente — nei loro dataset. In più, sono nelle mani di poche aziende capitaliste che hanno doppiamente estratto e rubato. Ma ridurre questa dinamica alla categoria del furto significa perdere di vista la questione più profonda: chi possiede la cultura digitale e chi può permettersi di rivendicarla?
Parlare di furto implica che esista una proprietà legittima di ciò che abbiamo iniziato a chiamare contenuto. Ma la produzione culturale è contaminazione e remix, è co-creazione e ri-generazione.
Il furto è quello di un editore che paga 5 euro per un articolo, 10 euro per un’illustrazione. Il furto è quello della piramide dove il 99% delle artiste e degli artisti ha l’1% dei ricavi, se va bene. Le AI si collocano in questo contesto estrattivo, non possiamo negarlo.
Ma il problema è che viviamo in un sistema dove tutto viene messo a valore: la parola, l’immagine, il gesto, la relazione.
Non solo: gli autori e le autrici indignate per il furto delle AI non sono altrettanto preoccupate quando i dati sono quelli dei camionisti usati per addestrare i navigatori. C’è una postura classista, in questo.
L’intersezionalità ci serve proprio per vedere questo: chi può permettersi di gridare al furto e chi no. Non solo: perché non gridiamo al furto quando una farmaceutica fa profitto sui brevetti dei medicinali? Eppure non possiamo vivere senza un medicinale salvavita. Non vorrei che l’estrazione, oggi, ci apparisse scandalosa perché tocca anche i ceti culturali che, finora, erano riusciti a confondere il privilegio con il diritto d’autore.
Le AI e la m*rda a spruzzo
Testi insulsi, immagini stereotipate, video tutti uguali, newsletter generate in serie, post che sembrano scritti da una macchina perché sono scritti da una macchina. La sensazione di saturazione è reale e anche comprensibile. Ma attribuire questa alluvione di contenuti alle AI significa ignorare che le macchine stanno solo amplificando una tendenza già umana, già sistemica.
La m*rda a spruzzo non nasce con ChatGPT o con Midjourney: nasce con l’economia dell’attenzione e dal suo modello di business.
Se ogni clic è valore e se scegliamo di produrre di più, sempre, per saturare lo spazio e catturare tempo e monetizzarlo, siamo noi responsabili della m*rda a spruzzo.
E poi, Chi ha i mezzi per generare e diffondere di più — le aziende, i partiti, i centri di potere economico e mediatico — può letteralmente coprire di rumore tutto il resto. Le AI, in questo senso, rafforzano il monopolio dell’attenzione: non perché scrivono male, ma perché rendono meno visibile ciò che non è prodotto da chi ha server e campagne di distribuzione.
La m*rda a spruzzo è un effetto collaterale del capitalismo dell’attenzione, e come ogni effetto collaterale colpisce in modo diseguale: soffocano le voci marginali, mica quelle centrali e già in vista.
Anche qui, l’intersezionalità serve a spostare lo sguardo: chi può permettersi di dire “c’è troppa m*rda”? Di solito, chi ha già un pubblico, un canale, una visibilità.
Chi produce dai margini, invece, potrebbe usa le AI come strumento di accesso, non di saturazione. Un poeta in una lingua minoritaria, una giornalista precaria, una piccola casa editrice indipendente possono usare gli stessi strumenti per esistere nello stesso spazio dove dominano i colossi.
La differenza è tra chi ha voce e chi no e la risposta alla m*rda a spruzzo è la costruzione di ecologie di attenzione diverse. Significa rallentare, scegliere, curare. Significa usare le AI non per sovraprodurre ma per svuotare, selezionare, sintetizzare, restituire senso al troppo e rigenerare. Senza stare a giudicare chi le usa diversamente.
L’intersezionalità qui è una pratica di cura: ascoltare chi è soffocato dal rumore, non chi lo produce.
Le AI e la fatica
L’idea che il valore di un lavoro dipenda dalla quantità di fatica fisica o cognitiva implica un modello preciso di corpo e mente: efficiente, sano, neurotipico, con tempo e risorse sufficienti. Ma non tutte le persone partono da lì.
Per persone con neurodivergenze (ADHD, autismo, dislessia) la “pagina bianca” può essere un muro insormontabile. Un’intelligenza artificiale può aiutare a strutturare i pensieri, superare un blocco esecutivo o correggere un testo, permettendo all’idea di emergere senza l’ostacolo del processo. Criticare questo uso significa dire: “La tua mente non funziona nel modo ‘giusto’, quindi non meriti di produrre”.
Per persone con disturbi d’ansia o depressione trovare l’energia mentale e la motivazione può essere complicato. Un’AI può abbassare il carico cognitivo di un compito, rendendolo gestibile in un giorno in cui altrimenti sarebbe impossibile.
Per persone con disabilità fisiche o malattie croniche, strumenti come la dettatura AI o i generatori di testo possono diventare importanti per partecipare al mondo del lavoro e della creatività.
Criticare l’uso delle AI, da questo punto di vista, è abilismo. La critica diventa ancora più problematica quando la si guarda con una lente intersezionale, perché la capacità di “fare fatica” nel modo tradizionale è, di per sé, un privilegio.
Chi ha il tempo e le risorse per “fare fatica”? Una studentessa che lavora due turni per pagarsi gli studi potrebbe usare l’AI per scrivere una bozza e risparmiare ore preziose. Un padre single potrebbe usarla per scrivere un’email di lavoro mentre si occupa dei figli. Il “lusso” di poter dedicare ore a un singolo compito non è universale.
Per una persona non madrelingua, un’AI può essere uno strumento potentissimo per comunicare in modo efficace e professionale, superando barriere linguistiche che altrimenti la penalizzerebbero sul lavoro o negli studi. Criticare il suo uso significa difendere il privilegio di chi è nato parlando una lingua dominante. Chi non ha avuto accesso a un’istruzione di alto livello può usare l’AI come un tutor personale per imparare, strutturare argomenti e accedere a una forma di capitale culturale che gli è stata negata.
La critica alla “mancanza di fatica” potrà anche sembrare un’esaltazione dell’unicità umana, ma ha l’odore stantio della difesa dello status quo. È un tentativo, spero inconscio, di preservare il valore di un certo tipo di abilità e di privilegio, svalutando chiunque utilizzi strumenti per accedere alle stesse opportunità.
Invece di chiederci: “Questa persona sta facendo abbastanza fatica?”, una buona domanda, in un’ottica intersezionale, potrebbe essere: “Questo strumento sta permettendo a più persone, con corpi, menti e storie diverse, di esprimersi e partecipare?”
Se la risposta è sì, allora la critica sulla “fatica” rivela molto più su chi critica che su chi viene criticato.
Le AI, il consumo e il capitalismo predatorio
Ho visto un reel su Instagram, visualizzato centinaia di migliaia di volte.
Era un’animazione digitale in cui l’autore si lamentava dicendo che è immorale usare le AI perché consumano energia dei data center.
Digitale. Su Instagram. Visualizzato centinaia di migliaia di volte. L’energia dei data center.
Ma quando il 90% delle copie di un libro di carta, tiratura 10mila, diciamo, viene mandato al macero perché non ha venduto, cosa diciamo? Quando un film viene girato con sei location, tre troupe, venti viaggi intercontinentali e un impatto ambientale enorme dov’è la stessa indignazione?
Sì, le AI consumano energia. Ma anche i server dei social, i servizi di streaming, le criptovalute, le mail archiviate, le foto salvate in cloud, le videochiamate, la serie bellissima di cui parlano tuttə che hai appena visto in binge watching.
Ogni like, ogni video, ogni ricerca Google ha un costo energetico. Solo che di solito non lo vediamo, perché è diluito nel nostro quotidiano. La differenza è che ora il consumo energetico è visibile, e ci infastidisce perché mette a nudo il costo della nostra stessa vita digitale.
La critica ecologista alle AI rischia di diventare un discorso moralista se non guarda al sistema di produzione di cui le AI fanno parte. Il problema è che le macchine consumano per mantenere lo stesso modello economico che consuma tutto il resto. È lo stesso sistema che brucia risorse per vendere gadget, rilasciare smartphone ogni anno, mandare al macero libri, vestiti, prodotti invenduti, resi di Amazon o Vinted. Il consumo è la condizione stessa del capitalismo digitale.
Anche qui, la lente intersezionale serve a spostare il punto di vista. Chi paga il prezzo dell’energia consumata (anche dalle AI)? Per esempio, chi lavora nei data center, chi vive accanto alle miniere di litio, chi vede le proprie risorse idriche deviate per raffreddare i server (gli stessi che vanno raffreddati anche quando metti il tuo bravo e giusto reel su Instagram). I costi ambientali si distribuiscono in modo diseguale: l’impatto ecologico dell’AI è anche un impatto coloniale. Il Nord globale consuma, il Sud globale fornisce.
Non c’è tecnologia innocente dentro un sistema predatorio. Ma forse potremmo iniziare a riconoscere il nostro ruolo nel sistema predatorio e smettere di nasconderci dietro la retorica di presunte purezze morali o superiorità culturali.
E allora che si fa?
Eh, bella domanda. Non so se ci sia una risposta univoca, la risposta univoca sarebbe il contrario dell’intersezionalità. Ma forse riconoscere l’intersezionalità delle AI è il punto di partenza che ci porterà a pretenderle per tuttə.
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Ciao Alberto, intanto grazie per questo volo altissimo (a volte pindarico, a volte tipo jumbo). In purissima amicizia puntacazzista mi permetto di commentare i brani che mi hanno colpito:
* la produzione culturale umana di massa è un oligopolio.
--> completerei specificando. La distribuzione della produzione culturale di massa è un oligopolio. Non è detto che valga anche per la cultura in se (guarda per esempio cosa accade quando autori poco noti vincono premi altisonanti).
* Quando interroghiamo un modello, quindi, non stiamo solo chiedendo “a una macchina”: stiamo interrogando la memoria digitalizzata del capitalismo culturale. E quella memoria è piena di gerarchie.
--> si... ma c'è un grosso ma. L'output non è più così deterministico come siamo abituati a pensare. Quindi usare modelli generativi richiede una flessibilità anche nel leggere la risposta, non ci possiamo fidare di una fluttuazione, dobbiamo farla nostra per comprenderla, accettarla o rinnegarla.
* Significa che le AI imparano soprattutto dai centri del potere simbolico — le lingue dominanti, i generi egemoni, le estetiche mainstream — e molto meno dalle culture marginali, dai dialetti, dalle tradizioni orali, dai linguaggi non normativi.
--> si MA: con l'immensa capacità di astrazione consentita dai modelli matematici abbiamo un presente in cui non tutto è traducibile in denaro, ma proviamo a tradurlo in matematica, la quale prenderà i concetti e li farà interoperare, anche traducendoci lingue di nicchia o concetti di nicchia, perchè in un'equazione non conta quanto piccolo sia l'errore, se c'è, non torna :) (aggiungo che la presenza di questo trattino nei tuoi brani — mi dice che forse hai usato proprio chatgpt per scriverne una parte, oh niente di male èh! :)
* Ma il problema è che viviamo in un sistema dove tutto viene messo a valore: la parola, l’immagine, il gesto, la relazione.
--> TOP affinità 100%, nel 1992 Roger Waters scriveva "It all makes perfect sense, expressed in dollars and cents". Adesso stiamo provando a far tornare tutto traducendolo in matematica, che è la lingua madre dei modelli AI.
* Non vorrei che l’estrazione, oggi, ci apparisse scandalosa perché tocca anche i ceti culturali che, finora, erano riusciti a confondere il privilegio con il diritto d’autore.
--> TOP DVD QUOTE!! Attenzione però che come ogni buon retore insegna, mal comune non equivale a mezzo gaudio.
* Le AI, in questo senso, rafforzano il monopolio dell’attenzione: non perché scrivono male, ma perché rendono meno visibile ciò che non è prodotto da chi ha server e campagne di distribuzione.
--> potrebbe anche essere il contrario, potrebbero spingere le persone lontane dai canali di distribuzione attuali, totalmente alienate dall'AI-Slop. Credo possa accadere con la stessa frequenza con cui lasciamo stare le bibite gassate, ormai stomacati dalla quantità di zucchero che contengono. A volte capita.
* La m*rda a spruzzo è un effetto collaterale del capitalismo dell’attenzione, e come ogni effetto collaterale colpisce in modo diseguale: soffocano le voci marginali, mica quelle centrali e già in vista.
--> non è detto. può anche fare il contrario e portare alla luce perle sommerse dagli algoritmi precedenti proprio perchè in questo caso l'output è meno deterministico dei precedenti modelli di visibilità.
* La differenza è tra chi ha voce e chi no e la risposta alla m*rda a spruzzo è la costruzione di ecologie di attenzione diverse. Significa rallentare, scegliere, curare.
--> magari. Questa credo sia piu la tua ricetta che l'andamento complessivo. La tua ricetta comunque mi piace, l'approccio slow che richiede di porre tempo anche nella lettura.
un grande abbraccio!
Ma perché, i Beatles non “rubavano”?