Su The Slow Journalist, da un bel po’ di tempo a questa parte, uso varie forme linguistiche, anche sperimentali, per evitare il maschile plurale sovraesteso.
Vuol dire scrivere, per esempio, giornaliste e giornalisti. Oppure usare la ə che fa inorridire molte persone. Non è solamente un vezzo. Se si studia il modo in cui il linguaggio opera a molti livelli si scopre molto presto l’importanza dell’uso delle parole e della rappresentazione.
In “La ricerca della lingua perfetta” Umberto Eco scriveva che Adamo è nomoteta: dà il nome agli animali, e così in qualche modo li conosce. Il racconto biblico a cui si riferiva Eco è emblematico nel rappresentare il modo in cui l'uomo si rapporta alla natura e la sua capacità di comprendere l'essenza delle creature attraverso la denominazione e l’uso delle parole. Se non conosciamo i nomi delle cose, non riusciamo a rappresentarle nel nostro cervello e dunque non possiamo immaginarle, con tutto quel che ne consegue.
Se vuoi un esempio pratico di come funzioni, io ho capito definitivamente quando ho visto mia figlia leggere “antropologhe e antropologi, archeologi e archeologhe” e dirmi: “Quindi se voglio anch’io posso fare l’archeologa?”. Sì. Anche tu.
Non è pensiero magico, come vorrebbero alcune persone. È normale per chi non si vede rappresentato provare gioia quando questo accade.
Le abili campagne di comunicazione di reazionari di ogni colore, tuttavia, hanno saputo ribaltare ogni tentativo di fare questo tipo di ragionamenti. Le tecniche usate sono state molte, quasi tutte con fallacie logiche che funzionano molto bene:
ridicolizzazione delle argomentazioni: una fallacia efficace perché sfrutta il meccanismo sociale della vergogna. Non è più necessario smontare razionalmente un ragionamento se riesci a far ridere o sorridere, anche amaramente. Se io propongo di usare la schwa o di nominare esplicitamente ogni genere, qualcun altro risponde con battute che sembrano sensate («Dai, allora mettiamo anche giornalist*, giornalistx, giornalistəəəə!»). Non serve avere un argomento migliore: la risata genera consenso automatico, e chi propone il cambiamento appare immediatamente come pedante o eccessivo (se vuoi vedere le conseguenze nefaste di questa strategia di comunicazione, leggi “I negazionisti dell’ADHD: Beppe Grillo” su Atipiche);
riduzione all’assurdo: una strategia semplice e potente. Si parte da un’afferita “assurdità” implicita nel ragionamento («Ah, allora per inclusività dovremmo chiamare lə tavolə, lə sedyə!») e si cerca di estenderla oltre ogni limite di ragionevolezza. L'obiettivo è portare la discussione su un piano così paradossale da renderla inutilizzabile, annullando così la forza della proposta originaria;
la falsa dicotomia (o falso dilemma): chi si oppone spesso finge che preoccuparsi della rappresentazione linguistica sia incompatibile con altre battaglie più importanti. È il famoso: “Abbiamo ben altri problemi!”. Come se la giustizia sociale fosse un gioco a somma zero, e occuparsi di parole rubasse energie preziose a cose più urgenti. È evidente l’errore logico: non siamo costretti a scegliere, possiamo benissimo occuparci sia delle parole che di tutto il resto.
l’appello alla tradizione: un classico senza tempo. È l’argomento del tipo: “Si è sempre fatto così”. Dato che per anni abbiamo usato il maschile plurale sovraesteso, la sua abolizione diventerebbe automaticamente sbagliata, un attentato alla lingua italiana stessa. Il cambiamento è percepito non come evoluzione naturale, ma come minaccia o degradazione.
il fantoccio di paglia: una delle fallacie più diffuse. Si attribuisce all’interlocutore qualcosa che non ha mai sostenuto (“Vogliono cancellare il genere maschile!”) per attaccarlo più facilmente. È molto efficace perché costringe l’interlocutore a difendersi da accuse infondate.
Tutte queste tecniche funzionano molto bene perché toccano corde emotive potenti: semplificazione e velocità, problemi di tutti i giorni di cui occuparsi, paura del cambiamento, pigrizia mentale, conformismo, disagio sociale. Però imparare a riconoscerle può aiutare a non cascarci e a tenere la barra dritta quando si cerca di usare le parole per rappresentare in modo più equo la realtà. Non si tratta solo di giustizia linguistica, ma di equità e basta.
Il nuovo ordine politico che si affaccia con i Trump e i Musk ha maneggiato ampiamente queste tecniche riuscendo nell’intento di far credere esistesse una cancel culture, una teoria sistematica di cancellazione di certe idee. Poi, però, agisce di fatto.
Quella che vedi qui sopra è una lista di parole o combinazioni di parole “attenzionate” dall’amministrazione Trump: vanno ridotte, evitate o abolite nella comunicazione della pubblica amministrazione (per esempio sui siti pubblici).
Quello che si diceva falsamente di chi tentava di sottolineare reali problemi sociali con il linguaggio inclusivo ora diventa vero e concreto, con un ribaltamento violento.
Ecco cosa vuol dire davvero non si può più dire niente.
Qualcunə sostiene che sia la naturale conseguenza delle istanze inclusive. È un ribaltamento stupefacente ma non imprevedibile, che prosegue nella medesima direzione di quel che abbiamo appena visto.
Palloncini, palloncini ovunque
Un'altra tecnica da conoscere assolutamente è quella del "trial balloon", o pallone sonda, fortemente legata a quel che abbiamo visto fin qui. Si tratta di una strategia comunicativa molto efficace, perché consente di testare rapidamente l'accettabilità sociale di una proposta estrema prima di renderla ufficiale.
Funziona così: si lancia un'affermazione particolarmente controversa o radicale nel dibattito pubblico, lasciandola fluttuare per un po'. Se l'opinione pubblica reagisce negativamente, si può facilmente fare marcia indietro, affermando che si trattava di una battuta, di una provocazione o che la frase è stata estrapolata dal suo contesto originale (una variante, se vuoi, del «non avete capito niente!»). Se invece le reazioni sono positive, o se comunque non incontrano particolare opposizione, si procede rapidamente in quella direzione, sfruttando il consenso ottenuto quasi per caso.
Trump ha spesso utilizzato questa tecnica: una dichiarazione apparentemente esagerata (“Costruiamo un muro e facciamolo pagare al Messico!”, “Prendiamoci la Groenlandia”, “Trasformiamo Gaza in un resort”) diventa improvvisamente realizzabile dopo che ha superato con successo la "prova sociale". Musk fa lo stesso con le sue dichiarazioni provocatorie su X o con le sue azioni (vedi il famigerato saluto nazista). Entrambi sanno bene che la comunicazione pubblica è un laboratorio permanente, e usano l'indignazione o il consenso iniziali per tarare le loro politiche successive.
Il trial balloon ha un enorme potenziale manipolatorio perché consente di abbassare gradualmente l'asticella di ciò che è considerato socialmente accettabile. Idee inizialmente inaccettabili possono diventare normalizzate semplicemente perché si è già parlato troppo di loro. È un meccanismo potente che spiega, almeno in parte, come sia stato possibile normalizzare certe idee violente e autoritarie. Per questo è fondamentale riconoscere anche questo meccanismo: quando vediamo affermazioni che sembrano "estreme" non sempre sono solo sciocchezze isolate. Potrebbero essere tentativi deliberati di allargare lo spettro del dibattito pubblico in direzioni pericolose. Saperlo può aiutarci a non cadere nella trappola, e soprattutto a non sottovalutare la capacità manipolatoria di chi usa il linguaggio non per includere, ma per dominare.
The Entertainer
Come hanno dimostrato gli studi del gruppo di lavoro di Walter Quattrociocchi, “I social media hanno imposto un nuovo business model al mondo dell'informazione premiando l'intrattenimento”. Questo significa che sui social “nasce una segmentazione delle opinioni in 'camere' chiuse non comunicanti tra loro”.
Se poi abbiamo a che fare con un maestro dell’entertainment come Trump, ecco che tutto diventa come uno stupido talent show. Emiliano Ereddia, scrittore e autore televisivo, ne ha parlato su Resoconti terrestri.
Purtroppo, il mondo dei media tradizionali non ha saputo o voluto dotarsi di anticorpi contro le fallacie logiche, contro i trial baloon, contro l’intrattenimento. Anzi, il giornalismo e l’intrattenimento si sono spesso sovrapposti aumentando la confusione.
Il risultato è che la conversazione pubblica è costantemente presa in ostaggio dal dichiarazionismo: appena arrivano il palloncino o la battuta o la fallacia logica, parte l’indignazione, poi l’indignazione per l’indignazione, e nel giro di poche ore tutta l’infosfera è invasa di conversazioni tossiche, inquinanti, senza alcun valore aggiunto, che non fanno che aumentare la confusione e favorire chi trae beneficio dalla confusione. Indovina un po’ chi.
Molestie in redazione
Dopo aver lavorato a un’inchiesta sulle molestie nelle scuole di giornalismo, le colleghe Stefania Prandi, Alessia Bisini, Roberta Cavaglià e Francesca Candioli hanno avviato un crowdfunding per finanziare la prosecuzione del loro lavoro. Questa volta si parla di molestie nelle redazioni. La loro inchiesta si può finanziare su Produzioni dal Basso. Slow News ha dato il suo contributo e puoi farlo anche tu.
AI@Work
Nell’ultima puntata del corso AI@Work ho parlato di nuovo di AI generative e SEO. Questa volta, però, dopo aver raccontato come diventare fonte per la ricerca assistita, mi sono concentrato sull’uso delle AI generative come assistenti per estrazione di keyword, comprensione del search intent, costruzione di un piano editoriale come quello che vedi in tabella, Seo friendly. Il corso si acquista qui (69 euro + IVA fino al 31 marzo). Oltreché per formarti, comprare AI@Work è anche un modo per continuare a sostenere The Slow Journalist e Slow News.
Buona settimana,
Alberto e Jon Slow.
Ecco: il meccanismo sociale della vergogna.
Stamattina, come tutte le mattine, ascoltavo il podcast di "Internazionale". Parlavano di un argomento che mi ha colpito: su Nature è uscito un articolo sulla “maggioranza silenziosa” di persone preoccupate per il cambiamento climatico. Che cosa sta succedendo? Succede che questo tema, pur preoccupando la maggior parte della gente, è diventato un tabù. Se ne parla sempre meno, perché ogni volta che emerge scatena reazioni violente, polarizzate, sproporzionate. E allora cosa avviene? Si smette di parlarne del tutto. Come accade con quegli argomenti che sai già essere pericolosi a tavola, tipo il sesso, la religione, la politica. E adesso anche il clima: al pranzo di Natale meglio evitare, meglio non nominare neppure.
Così ogni persona finisce per credere di essere in minoranza. Si isola. Si convince che preoccuparsi per il cambiamento climatico sia quasi una bizzarria privata, una mania da tenere nascosta. E non se ne parla. E la politica, che si muove solo davanti ai riflettori accesi dell’opinione pubblica, non considera più il tema una priorità. Non fa nulla.
Il risultato? Chi è preoccupato tace, e più tace, più si sente minoranza.
Trovo che questo meccanismo – il silenzio della maggioranza – si applichi a moltissimi altri temi, non solo al cambiamento climatico – e sempre oggi trovo il tuo articolo a conferma –, e che sia parte, in una maniera sorprendentemente metodica, di una manipolazione del consenso e dell’informazione: un sistema in cui certi argomenti vengono scientificamente attaccati, demoliti, ostracizzati online. Argomenti su cui piovono shitstorm ben orchestrate, precise, mirate a renderli impronunciabili. Con un altro effetto collaterale: screditare chi osa parlarne. E allora cosa si fa? Niente. Non se ne parla più.